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Attacchi di panico I: Le forme della crisi

L'attacco di panico è tanto espressione della storia personale quanto un fenomeno caratteristico del nostro periodo storico, contraddistinto da incertezza, frammentazione e complessità.

Evento improvviso e paralizzante, con perdita del controllo, crisi della presenza, fame d’aria, angoscia di morte, sentimento di impotenza, vertigini, ansia anticipatoria, l’attacco di panico esprime un terrore senza spiegazioni. Ma l’attacco di panico, da evento drammatico e insostenibile, può trasformarsi in risorsa e aprire la strada alla riattivazione dell’energia, della vitalità, della creatività di chi ne è colpito, attraverso una lettura che non lo costringa nelle maglie del dolore individuale, ma lo riconduca al complesso intreccio tra storia personale, declinazioni culturali e processi sociali.

In particolare, non va sottovalutato il ruolo che la dimensione storico-sociale gioca nel dare forma a questa particolare declinazione della sofferenza. Così Stefania Consigliere, ricercatrice in Antropologia, ci parla della crisi della nostra modernità, ricollegandola al concetto di crisi della presenza di De Martino:

«La crisi che ha attraversato tutto il Novecento e che oggi si ripresenta è l’impossibilità del fondamento. Non già questo o quel principio, sostituibile con un altro: a venir meno è stata la possibilità stessa di una fondazione così come noi la vogliamo: certa, unica, buona. Assoluta.

Essa si manifesta come consapevolezza – oscura o adamantina, generalizzata o acuta – che gli assunti alla base della nostra forma di vita non tengono più, o non quanto vorremmo: che nulla è più come non è mai stato; e come estremo tentativo di incatenarci a quel che resta, o di distrarci dal problema. Così enunciata, la crisi della modernità sembra astruseria da filosofi. Ma è nel più trito quotidiano, e direttamente sulla nostra pelle, che ne viviamo le conseguenze: dalla diffusione dei supplementi psicoattivi al dominio dell’impianto spettacolare, dall’incapacità di immaginare altri modi di vita all’espandersi del controllo tecnico. Altre manifestazioni, e delle più terribili, hanno sperimentato le tre o quattro generazioni che ci precedono.

Nei termini di Ernesto De Martino si tratta di una generalizzata e duratura crisi della presenza: la difficoltà nell’abitare il proprio tempo e le proprie relazioni, il venir meno dei punti di riferimento che ordinano il mondo e il fluttuare dei soggetti in uno spazio di indifferenziazione. In situazioni di stabilità, la crisi della presenza caratterizza alcuni passaggi esistenziali individuali (un lutto, un cambio di status, una malattia), in cui rischio e opportunità arrivano insieme, ed è la tenuta del collettivo a deciderne l’esito: il passaggio critico e il pericolo che esso comporta per il soggetto può risolversi per il meglio, con la stabilizzazione di un nuovo modo della presenza, oppure prendere una china nefasta» (Stefania Consigliere, 2014, p.13).


Gianni Francesetti, psicoterapeuta di origine gestaltica, declina questi stessi temi nella cornice della clinica, sottolineando il ruolo delle appartenenze – e quindi del ground – nel costituire un terreno sicuro su cui appoggiarsi per attraversare i passaggi critici che inevitabilmente incontriamo lungo il nostro cammino:

«Il passaggio dall’oikos (luogo dei pochi, della casa, dell’amicizia intima) alla polis (luogo dei molti, della città, dell’apertura al mondo) sembra centrale nell’insorgenza del disturbo di panico. Questo passaggio cruciale comporta infatti la profonda ristrutturazione delle proprie appartenenze, dei propri sfondi sicuri, ed espone il soggetto alla solitudine e alla propria vulnerabilità. […] Le appartenenze sono parte significativa del ground che sostiene l’organismo e che costituisce lo sfondo di sicurezza estrema (Perls et al., 1971, 464), il terreno in cui esso si radica e il periodo di uscita dalla famiglia d’origine è una fase del ciclo vitale in cui questo sfondo deve essere destrutturato e profondamente rimodellato. La sua instabilità espone l’organismo alla possibilità di crolli improvvisi e transitori dello sfondo e quindi all’esperienza dell’attacco di panico. Il soggetto che soffre di attacchi di panico è sospeso fra appartenenze passate che non sostengono più e appartenenze future che non sostengono ancora.

La difficoltà di trovare sostegno nella polis nella condizione postmoderna si intreccia e si esplicita, quindi, soprattutto in quelle fasi del ciclo vitale personale nelle quali si è impegnati ad abbandonare le appartenenze consolidate e cresce l’autonomia.

E’ probabile che l’attacco di panico insorga proprio quando l’autonomia del soggetto cresce più di quanto cresca il sostegno dato dalle appartenenze o, potremmo anche dire, quando il distacco dall’oikos non trova adeguato sostegno nella polis» (Gianni Francesetti, 2005, p.84).


La fragilità dell’Io, diviso tra spinte contraddittorie all’autonomia e alla dipendenza, porta inevitabilmente alla manifestazione di sintomi che non sono tanto l’esplicitazione di una sofferenza individuale e intrasoggettiva, ma piuttosto lo svelarsi di una condizione di impotenza e inadeguatezza rispetto a quella dimensione sociale che dovrebbe invece essere di indirizzo e di supporto. Così descrive questa nostra condizione Piero Coppo, (etno)Psichiatra e psicoterapeuta:

«Nel processo di antropopoiesi proprio alle società ricche, l’Io è infatti privato delle sue connessioni e dei riferimenti che per tanta parte della storia umana lo avevano sostenuto. Consegnato in questo modo solo a se stesso, diviene dipendente, nel ciclo di valorizzazione/svalorizzazione, dai nessi che riesce di volta in volta a stabilire con oggetti e situazioni sempre più precari: un ruolo lavorativo, una relazione gratificante, uno status sociale, uno status symbol, un’appartenenza valorizzante. Dipende quindi da investimenti revocabili e caduchi, lo scheletro dell’Io finisce per essere costituito dalle sue stesse protesi, sulle quali però non può fare affidamento oltre il bagliore che accompagna la loro acquisizione. In questo senso, l’oggetto non proietta più soltanto, freudianamente, la sua ombra sull’Io ma finisce per costituirlo.

L’Io è dunque gettato in un mondo governato dalla necessità di un’accentuata impermanenza, ma nel quale l’ideale di salute condiviso e proclamato è quello della conservazione e dell’accumulazione, non del deperimento. Da un lato se ne predica l’autonomia, dall’altro se ne promuove la dipendenza; ne risulta una dinamica contraddittoria, spesso inconsapevole e sempre patogena, che spinge a una specie di coazione all’incorporazione ansiosa di oggetti evanescenti per bilanciare la debolezza di fondo che rende ciascuno estremamente sensibile a ogni frustrazione che incrini l’immagine del proprio valore e della propria autonomia. Reso così tremendamente fragile, l’Io è esposto, indifeso, agli effetti devastanti di ogni perdita o valorizzazione.

[…] Le condizioni di vita in Occidente generano così vissuti sempre più diffusi di soggezione a forme organizzative e produttive tendenzialmente anonime, accompagnati dalla consapevolezza della propria impotenza a controllale o modificarle sostanzialmente. Si tratta di quelle esperienze della vita associata che, come sottolineava De Martino, riproducono il modello naturale della forza spietata che schiaccia.

Questo ambiente domesticante e potente, che insegna fermamente e progressivamente che non c’è alternativa né ribellione possibile, facilita certamente esperienze di ripiegamento, resa e non-vissuto. Come abbiamo visto, anche da esse si generano le sofferenze che, in contesti psichiatrizzati o psicologizzati, possono assumere le forme di disturbi depressivi. Si tratta però di forme dai limiti sfumati: al di là delle incerte linee di confine, comportamenti suicidari, tossico manici, disturbi alimentari, attacchi di panico, fobie sociali, fatica cronica, bouffées deliranti, manifestazioni isteriche o altro, testimoniano di analoghi vissuti e storie, sia pur con diversi destini» (Piero Coppo, 2005, pp.138-140).


Se questa è la cornice in cui gli attacchi di panico si manifestano, allora il lavoro dello psicoterapeuta – con il paziente che non si accontenterà di demandare unicamente al farmaco il compito di “spegnere” il dolore – consisterà prevalentemente nella costruzione di una relazione che permetta al paziente di esplorare le proprie appartenenze, di “saggiare” il terreno su cui si appoggia (oggi con paura e difficoltà) e di individuare assieme gli elementi necessari per riprendere il cammino evolutivo verso una reale autonomia, o meglio verso attaccamenti/appartenenze/legami più consapevoli e più solidi.

L’attacco di panico non è dolore vuoto, non è sofferenza senza senso.

Espressione di una condizione individuale in crisi, all’interno di un contesto sociale sempre più fragile e

perturbante, l’attacco di panico è la richiesta di aiuto che la nostra voce interiore – la nostra parte più vitale, quella che non vuole arrendersi e che crede ancora che “un mondo migliore sia possibile” – lancia, nella speranza che questo grido metta in moto quelle forze creative che possono portare a un cambiamento reale e duraturo.


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